“La tenerezza”: la lezione d’autore di Gianni Amelio

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In un mondo in cui i veri autori – nel campo culturale in generale – scarseggiano, Gianni Amelio ci dà una lezione di ciò che significhi davvero questa parola: con il suo “La tenerezza” – mi si perdoni il facile gioco con i titoli dei suoi film – colpisce davvero al cuore. E lo fa mostrandoci anche il contraltare della tenerezza di cui parla, mostrandoci la durezza della vita, come una delle facce del vivere stesso, che quella tenerezza può però mitigare. Quella complessità del vivere, quel bianco e nero che si incontrano, che si sfiorano, come le esistenze dei protagonisti del suo nuovo film, sullo schermo come nella realtà. Ma, ancora una volta, quello che Amelio traduce sullo stesso schermo non è nulla di solamente reale: è stile preciso, che consente di mediare un racconto, una storia, attraverso lo sguardo artistico, poetico. Quello dell’autore, appunto. Quello di chi prende un libro, ma non lo traspone così com’è: lo fa proprio, lo rielabora, lo rende emozione visiva ed interiore, che ti colpisce, ti inchioda alla sedia, di turba e ti commuove. E pochi autori italiani, oggi, riescono in questo intento: pochi riescono a non fermarsi alla ricerca del virtuosismo stilistico; pochi riescono a non essere didascalici, a non “vergognarsi” della tenerezza, della poeticità di un racconto; pochi riescono a superare il racconto stesso, la storia, a lasciare lo spettatore con il desiderio di conoscere, di saperne di più dei personaggi, perchè il “non detto”, il non esplicitato – nella vicenda, così come tra i personaggi stessi – fa parte della vita, fa parte di esistenze che si incrociano ma che non hanno bisogno o non riescono a dirsi tutto, esistenze in cui a volte gli sguardi, i ricordi, le sensazioni, i mutamenti della vita stessa, possono essere ancora più forti e sconvolgenti.

Ed è una storia forte, quella che Amelio racconta ne “La tenerezza”: una storia di affetti, sottili e potenti; di padri e figli, di mariti e di mogli, di nonni, di amanti: facce, sorrisi persi, volti dietro i quali si nascondono segreti. Una storia umana, in cui si perde la tenerezza per chi è più vicino e la si ritrova per caso, in un volto sconosciuto; in cui si ricerca l’affetto, si tenta di conquistarlo in ogni modo o si dà nel modo più semplice e insperato. Vite mai lineari, che si incrociano, mutando. E tutto narrato in sottrazione, con un racconto interiore che sullo schermo viene reso da impercettibili mutamenti di sguardo, da una camminata, da dialoghi mai tesi, brevi e densi di un’umanità mai banale: e quando i toni si alzano, ecco lo stile che chiude la scena, anche la più drammatica, con la luce della poesia, il gesto della pietà, il silenzio che mitiga la rabbia. Un percorso filmico che ha in un immenso Renato Carpentieri il perfetto interprete: la grande esperienza teatrale dell’attore gli consente di gestire con millimetrica precisione ogni gesto, di tradurre – con sapiente unione tra naturalezza e tecnica – ogni sentimento, sentito e nascosto insieme. Carpentieri è l’anima di questo film, lo indossa come un abito, lo trasporta tra gli alti e bassi di un’esistenza, lo fa camminare tra i vicoli di una Napoli che è protagonista, tra modernità e tradizione, tra angoli nascosti e palazzi, e vista da tante finestre, che sono specchi, o paraventi o fonte di immaginario futuro.

Insieme a Renato Carpentieri, da evidenziare in particolare il ritorno al cinema di una Giovanna Mezzogiorno perfetta, misurata, di una intensità unica nel rendere il ruolo difficile di una figlia respinta che cerca di riconquistare il cuore, apparentemente indurito, del padre; e la “magnetica presenza” di Elio Germano, anch’egli capace di esprimersi e coinvolgere con sapienza attoriale incredibile. E un altro bel ritorno è quello di Greta Scacchi, interprete che buca lo schermo con un monologo spiazzante.

Grandi prove di attori (tra cui una Micaela Ramazzotti dai toni ingenui, svagati, naif), sapientemente guidati da Amelio in un viaggio tra storie e sentimenti che travalica i tempi, come dovrebbe essere per ogni opera d’arte che, in quanto tale, aspira ad essere universale, e che, come tale appunto, ha in sè l’unicità di stile propria di un autore.