Redford: 80 anni tra recitazione, regia e impegno

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Si potrebbe dire che non ha alcun riferimento con il sud…ma, in realtà, riguarda la programmazione del Circolo del cinema Zavattini di Reggio Calabria! Quella che ripropongo di seguito, in occasione degli 80 anni di Robert Redford, è infatti la scheda che ho avuto l’onore di scrivere, in occasione della rassegna 2014-2015 del Circolo, aperta dal film “All is lost”, costruito attorno alla splendida – e silenziosa – interpretazione di Redford.

Come per il suo “compagno di avventure” Paul Newman, la regola hollywoodiana non vale: l’aspetto fisico, nel caso di Robert Redford, come in quello di Newman, non è stato il dato che ha scandito le loro carriere, ma è divenuto strumento, quando l’età ha cominciato a farsi vedere sui loro volti, per costruire su ogni ruga, su ogni segno sul corpo, un nuovo modo di raccontare, di esprimere emozioni con una intensità, se possibile, maggiore rispetto a quando erano giovani.

Questo, per Redford, vale naturalmente nel suo lavoro di attore, ma la profondità di una scelta, di un modo di essere si è espressa, nella sua carriera, anche nel suo lavoro di regista. Due momenti che non sono distinti, anzi – seppure dietro la macchina da presa è arrivato solo nel 1980 (con un autentico gioiello di rigore e di indagine psicologica, mista ad un vero e proprio melodramma, come “Gente comune”) – sono strettamente legati. Redford non ha mai scelto le strade facili, sfruttando appunto l’aspetto fisico, ma fin dall’inizio i registi con cui ha lavorato ne hanno colto la forza espressiva per identificarsi in personaggi intensi, sfaccettati, “impegnati”, come gli stessi film da lui interpretati: da “La caccia” a “Il candidato”, da “I tre giorni del condor” a “Brubaker”, una delle prime opere a trattare il tema dei sistemi e della situazione carceraria. Anche nella commedia, comunque sofisticata e d’autore (“A piedi nudi nel parco”, per fare un esempio, scritta da Neil Simon), anche in un film solo apparentemente più “leggero”, pur se vincitore dell’Oscar (in realtà un esempio di sceneggiatura di ferro, oltre che ricco di critiche “sottotraccia”) come “La stangata”, anche in pellicole da lui dirette, magari più “alimentari” (come “L’uomo che sussurava ai cavalli”, che peraltro gli consentì di mostrarsi scopritore di talenti – anche in questo caso come l’amico Newman – come quello di Scarlett Johansson, mentre in precedenza aveva rivelato un giovane Brad Pitt), la sua presenza non è mai banale, la sua interpretazione supera la presenza stessa, per diventare quasi indagine analitica di un personaggio o di una storia.

Come nel caso di “Tutti gli uomini del presidente”, il film che ripercorre la nascita dello scoop del Watergate: una storia mondiale che è talmente entrata in quella personale di Redford che l’attore ha deciso di realizzare un documentario sulla vicenda, proprio poco tempo fa. Un elemento che fa capire come l’aspetto attoriale e quello registico, oltre che umano, siano in realtà andati di pari passo, due aspetti di una stessa personalità. Che non è solo quella del cineasta impegnato in temi politici o sociali, ma quella di una persona (prima ancora che personaggio) che ha una visione del cinema come strumento di analisi della realtà, che gli consente di andare oltre i confini di una industria. Da qui anche la scelta di creare un festival (non a caso chiamato “Sundance”, dal nome del personaggio da lui interpretato insieme al suo grande amico Newman in “Butch Cassidy”) che puntasse i riflettori sul cinema indipendente, quando ancora questo tipo di iniziative non esistevano. Un modo di vivere il cinema, e forse la vita, controcorrente, senza fermarsi alle apparenze, ma indagando, sia le storie che gli animi. Lo dimostrano tante sue prove più recenti, come “La regola del silenzio”, proposta dal Circolo Zavattini lo scorso anno (e prima ancora “Leoni per agnelli”, un film sicuramente molto complesso, molto scritto e strutturato in maniera inconsueta, ma certamente un pugno nello stomaco dello spettatore, con il suo sguardo diretto sul mondo e sulla politica). E lo dimostrano anche le sue scelte attoriali, tuttora fuori dagli schemi, che lo portano a rischiare, pur non avendo più la necessità di farlo. Mettendoci la faccia (non solo metaforicamente), dando fiducia a registi quasi esordienti, dannandosi l’anima perchè la distribuzione non è stata coraggiosa e infischiandosene se l’Academy, ancora una volta, lo snobba. Perchè i premi non servono, quando ancora si ha l’animo di un ragazzino, che, al contrario del personaggio che gli diede la fama, ovvero Hubbel di “Come eravamo”, non riesce a stare lontano dall’impegno, non può fare a meno di sperimentare, magari a volte concedendosi una pausa (in fondo, “Proposta indecente” possiamo pure perdonarglielo….), ma con la consapevolezza di “essere cinema”, non solo di farlo. E di saperlo fare.